boscoriserva n° 13 del 12-3-14: s. stefano

[ringrazio Lorenzo da Venturina (LI) che ieri mi ha fatto notare che la rubrica è uscita con l’intestazione “branobag”. La cosa che mi ha fatto sorridere è che mi ha scritto “o ‘un si chiamava boscoriviera?”. Grande Lorenz: abbiamo il titolo della prossima rubrica!]

Una volta chiesi a uno dei miei capi ai tempi americani se gli piaceva la musica rock.
La domanda era chiaramente tendenziosa: essendo nato a S. Diego, Californ-i-a, nel 1969 poteva avere un’età compatibile alla partecipazione a concerti “al top”, nell’ambito del discorso che stiamo portando avanti, e quindi potevo magari attingere a testimonianze oculari legate ad alcuni miti di boscoriserva, e in particolare a due: Jimi e Janis.

Larry, così si chiamava, un bell’uomo sulla sessantina, con barba bianca da project manager saggio e una voce alla Clint Eastwood, mi raccontò una storia.

You know, Andreah… (sai Andrea)…il rock non mi ha mai esaltato, ma da giovane mi piaceva andare in bici. Un’estate andammo a fare un giro con dei miei amici in [una zona rurale della California che non ricordo] e ci fermammo presso una fattoria. Lì c’erano due gruppi che suonavano, e non più di una decina di ragazzi che ascoltavano. Uno dei due gruppi erano i [non ricordo il nome] e gli altri si chiamavamo Grateful Dead“.

Molare, come dicono i dentisti: se parli con gli anziani della tribù, puoi sempre scoprire che hanno avuto frequentazioni inedite e vicine ai tuoi interessi della tua generazione. Magari Roger Daltrey, sperimentando la stessa cosa, avrebbe cantato diversamente?

St. Stephen è l’unico pezzo dei Grateful Dead che mi ricordo bene, essendo anche il primo che mi è capitato di sentire. Per me è uno dei pezzi “psichedelici” per antonomasia, qui proposto in un’esibizione di poco successiva al boscoriserva. Per far vedere il gruppo ben è importante cercare video non troppo in là negli anni ’70, perché in quel periodo la barba di Jerry Garcia crebbe secondo una geometria assirobabilonese sino a occupare la maggior parte dei palchi che calcavano. A voi l’ascolto. La traduzione fatta bene richiederebbe un’ora buona, essendo un testo un po’ elaborato, per cui caso mai fatela voi e poi la aggiungo. La qualità del video è bassa, ma merita tutto (e la seconda parte del video è veramente notevole per motivi di “Costume e società”).

Per il testo con varie note a margine che provano a interpretare il simbolismo spinto di questo brano, vi invito a vedere la pagina di tale Dave Blackburn dell’Università di Santa Cruz in California.